Da venerdì 14 a domenica 16 ottobre si è tenuto l’annuale Seminario Nazionale Federale. Per il secondo anno consecutivo, la Fijlkam ha organizzato questo evento alle porte di Torino, a Leinì, nella locale cittadella dello sport. Il Piemonte, nel 2022, è stato nominato “Regione Europea dello Sport”: l’impegno del CONI, del Comitato Regionale e dei vari settori sta trasformando la cittadella dello sport in un polo di eccellenza per le Arti Marziali.
Concomitanze. Problema od opportunità?
In concomitanza con questo evento, giusto per rimanere nel nord Italia, si sono svolti almeno quattro raduni di spicco. In Emilia ha avuto luogo uno stage diretto da Yoshimitsu Yamada, presidente della United States Aikido Federation e uno dei pochi insegnanti in attività ad aver conosciuto Morihei Ueshiba. In parallelo, a Bologna, Laura Benevelli e Marco D’Amico hanno condotto uno stage.
In Veneto, due insegnanti di spicco dell’Aikikai hanno guidato un seminario (Donatella Lagorio e Carlo Raineri). Infine, a Torino, Manon Soavi ha svolto un percorso di Katsugen Undo e Aikido secondo la scuola di Itsuo Tsuda. Sempre a Torino, ci sarebbe dovuto essere un seminar di Christian Tissier, poi cancellato.
Le concomitanze sono un problema quando un singolo Dojo organizza un evento e ne trova altri in sovrapposizione, per mancanza di comunicazione, a pochi minuti di distanza. Chi ha un po’ di esperienza di vita associativa sa bene che questo è un peccato, perché se proprio non ce la si fa a lavorare in rete, perlomeno sarebbe bello non cannibalizzarsi a vicenda.
Ma quando la dimensione è nazionale, le concomitanze cessano di essere un problema. Diventano un’opportunità e un’occasione, nella libertà, di esercitare la responsabilità di una scelta. Per certi versi, rappresentano la vitalità di un movimento che, nella sua globalità, muove ancora la passione di tante persone che ritengono che valga la pena investire tempo, energie e risorse, nello scambio che avviene durante un evento di una certa portata.
Stage piramidali versus stage matriciali…
La ricchezza di uno stage è data dalla polifonia che si autocompone dallo scambio durante la pratica. La polifonia è tanto più ricca quanto più i partecipanti vengono da percorsi di formazione differenti. Non sempre si ha voglia, pazienza o capacità di immergersi in un ambiente disomogeneo; così come spesso si ha necessità di un percorso intensivo su alcuni particolari dello stile che pratichiamo.
Alla lunga però, bisogna porsi una domanda di senso e di scopo: trovarsi (sempre) a fare cose note fino a che punto fa bene? A quali condizioni l’evento piramidale (ovvero: il maestro che gira ciclicamente l’Italia/l’Europa/il mondo e gestisce in autonomia la didattica) diventa nutrimento formativo per chi vi partecipa? E infine: se un filotto di “eventi piramidali” formasse una massa piuttosto omogenea di praticanti, sia nei ranghi medio alti, sia nei principianti, potremmo davvero parlare di polifonia o non dovremmo parlare invece del “solito ritornello”?
L’impostazione che il seminar nazionale sta seguendo negli ultimi anni è improntata ad un tentativo di collaborazione tra docenti che consenta ai presenti di ascoltare più voci e mettersi in discussione confrontandosi con i medesimi principi declinati dagli stili di appartenenza.
Fino a non molti anni fa il programma federale per gli esami dan coincideva col programma dello stile Iwama Ryu. Il dovuto riconoscimento di altri percorsi ha portato ad un lento, incrementale, necessario processo di apertura e valorizzazione di altre scuole. E lo stage è diventato un’esperienza matriciale, in cui le proposte si alternano, con possibilità di scelta da parte del partecipante. Una scelta ampia, non infinita, certamente migliorabile ma che quest’anno ha spaziato in uno spettro che passa dall’Iwama Ryu contaminato dai percorsi di ricerca personali dei maestri Rubatto e Ramazzin, all’Aikido del Kai Shin Kai e delle prospettive della didattica di Seijuro Masuda portate dal maestro Raffaele Foti e va ad affinarsi nel Kobayashi Ryu dei maestri Nuccio Iuculano e Giovanni Desiderio, con la sua esperienza nelle scuole di spada.
…il cervello in una centrifuga a 10000 giri.
Si dirà -e a ragione- che didatticamente l’Aikido è più ampio di così. Nell’attesa che cresca in futuro la presenza di altri stili, ci verrebbe da dire che già così è sufficiente per mandare in corto circuito il praticante medio. Il quale si trova tutto a un tratto su un tatami in cui il linguaggio tecnico cambia di ora in ora, spingendolo non solo fuori dalla sua zona di comfort ma soprattutto verso quattro possibili esiti (in ordine crescente di probabilità):
a) vedere la luce e diventare come Neo di Matrix capaci di cambiare stile e modalità di pratica come un camaleonte;
b) rifiutare la proposta tecnica e rifugiarsi a bordo tatami (è triste vedere questo atteggiamento in alcuni senpai);
c) accettare la proposta tecnica, non riuscire a declinarla fisicamente e scivolare più o meno lentamente in automatismi fisici della propria scuola di appartenenza;
c bis) finire a praticare con gente conosciuta per andare sotto ritmo;
d) rimanere dentro la proposta tecnica, esaltarsi per quella volta su dieci che il movimento riesce fluido e accettare quel tantino di frustrazione nelle restanti nove volte.
La sensazione è di leggera ebbrezza: il sistema non comprende granché e la testa fa il resto. Trattandosi di uno stage che deve necessariamente lavorare sui principi perché è anche un momento di formazione per i tecnici, i dettagli sono sottili anche se le tecniche magari hanno nomi noti. Risultato: sensazione di essere in una centrifuga a 10000 giri.
Taikai, gare, competizioni, circolari del Doshu…Che masagatsu agatsu sta succedendo?
L’anno scorso, nel seminar nazionale era stato introdotto sperimentalmente un taikai di jo. Un piccolo torneo, con un suo regolamento embrionale che prevedeva la possibilità di esibirsi in kata di jo individuali, a coppie o a squadre di tre partecipanti.
Quest’anno l’esperimento è stato consolidato in una proposta più strutturata.
Che dire? All’esterno della federazione questa “novità” ha suscitato diverse reazioni. C’è chi ha gridato allo scandalo, suonando a distesa la campana del “laikidononècompetitivoloharibaditoancheildoshuinunaletterarecentementemannaggiassaitoequantosiamopuristinoichenonfacciamoleggare”. C’è chi ha guardato con curiosità. C’è chi -e pare la maggioranza- è rimasto completamente indifferente: io mi occupo del mio orto, la Fijlkam faccia quello che vuole.
All’interno dei praticanti della Fijlkam probabilmente qualcuno ha sollevato il sopracciglio ma apparentemente non ci sono stati grandi contrasti.
Si possono fare tante riflessioni. La prima, di ordine generale, è ispirata ad un concetto di “pari opportunità” e quindi di “pari dignità”. Che l’Aikido sia una realtà di nicchia non c’è dubbio. Che siamo considerati i cugini poveri dei già poveri karate e judo, anche. In Federazione è in corso un lento processo di parificazione rispetto alle altre arti marziali rappresentate e questo è un bene sotto ogni punto di vista.
Per contro, la parificazione, sotto il profilo dell’architettura dell’organizzazione di un movimento, porta con sé l’istanza di domandarsi come possa essere strutturato un settore agonistico nell’Aikido. Da qui le sperimentazioni per comprendere che tipo di traiettorie proporre.
La seconda riflessione invece prende le prospettive del praticante. Non soltanto perché, partecipando, può contribuire attivamente a dare forma all’Aikido che verrà. Ma soprattutto perché il momento di un torneo, per ora ancora molto destrutturato rispetto per esempio agli analoghi tornei nazionali di Judo o Karate, restituisce a chi vi prende parte elementi utili per il proprio percorso di crescita.
Ammettiamolo: agli esami dan si vedono delle bocciature, è vero. Ma costituiscono delle eccezioni rispetto alla norma: se ti prepari mediamente in modo accettabile, l’esame lo passi, pur con tutta la fatica del caso.
Il torneo è diverso: in quei pochi secondi viene scattata una fotografia. Certo, la fotografia rappresenta quel momento e non tiene conto di chi sei, da dove vieni e dove puoi andare. Ma ha il pregio di quella franchezza brutale che tutto sommato non dovrebbe dispiacere a un praticante di Arti Marziali.
E lì, chi sei, il tuo grado, il tuo eventuale pedigree non conta proprio nulla: trovi sedicenni kyu che svolgono in maniera fluida, determinata, centrata, rilassata e piena un kata come trovi dei quarantenni dan che vanno ai mille all’ora ma dimenticano un pezzo e sporcano le linee di proiezione. In ogni caso, ti prendi il risultato, stai zitto e te lo porti a casa come elemento di valutazione tecnico e caratteriale per puntare a migliorare. Senza drammi ma senza nasconderti dietro il dito che “in fondo va bene tutto”. Nel caso di un piazzamento: con la giusta soddisfazione ma sapendo che un secondo dopo la premiazione è di nuovo tutto da ricostruire.
Quindi: continuiamo a raccontarci la storia, vera, che “masagtsu agatsu”: la migliore vittoria è davvero quella su se stessi. Ma, per favore, non disprezziamo a priori il tentativo di dare degli strumenti, alla comunità di pratica, per declinare nel mondo reale un concetto così aulico come la “vittoria su se stessi”. Sennò la bocca dice cose giustissime mentre il resto del sistema non ha il coraggio di confrontarsi con quel concetto.
E’ ovvio che si deve vigilare affinché la prospettiva della gara non diventi l’ossessione di chi voglia parteciparvi. Su questo c’è da lavorare, perché il rischio c’è. Un po’ come quelle persone che nei mesi precedenti il proprio esame monopolizzano l’allenamento e provano in continuazione le loro tecniche. Ci sta ma anche no.
Come occorre anche vigilare che queste occasioni non diano adito alla costruzione di inimicizie, sospetti, invidie, gelosie tra società. Tutte cose che esistono dove ci sono gare.
Come si fa a vigilare? Sicuramente mantenendo tutto in un clima estremamente rilassato, dove, come viene abbondantemente ripetuto, il torneo è e rimane un momento dove mettersi in discussione, dove offrire una piccola rappresentazione del proprio Aikido, lasciando estremamente facoltativa la possibilità di accedervi, come dovrebbe essere in effetti qualsiasi settore agonistico.
In conclusione…
Siamo tutti esseri con ampi margini di errore e dunque ancor più ampi margini di miglioramento. Vale per i singoli come per le aggregazioni. Nel saluto istituzionale della presidenza del CONI si è detto abbastanza chiaramente che, dopo le difficoltà della pandemia, la situazione energetica ed economica metterà a repentaglio la sopravvivenza di molte realtà associative. Tradotto letteralmente in pratica: lo svolgimento delle attività che davamo per scontate avrà bisogno dell’impegno di tutti per poter andare avanti. Far parte di un movimento radicato nelle istituzioni offre anche questo tipo di prospettiva: una casa con le porte aperte, con delle regole, e con l’ambizione di poter sfidare le tempeste per poter offrire a chi lo desidera un ambiente idoneo per la crescita personale.
(nella foto: il gruppo Hara Kai e Novum Experience)